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Fogli sparsi

  • Immagine del redattore: Daniele Benussi
    Daniele Benussi
  • 25 lug 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

Aggiornamento: 11 gen 2024



Questo tramonto parla di me molto meglio di come io stesso saprei fare.

Fisso la linea dell’orizzonte, dal centro di quella palla infuocata si stacca un fiume di lava che tremolante si fa strada nel freddo di un mare invernale e mi entra negli occhi.

In testa sento fluire qualcosa di troppo grande per poter dire che mi appartenga. Mi accorgo di ricordi che mi svolazzano in testa come fogli sparpagliati dal vento. Di qualcuno, se chiudo gli occhi, ne sento il sapore.


Mi rivedo ragazzo vagare per le strade di Parigi nell’unica ora del giorno in cui mi è concesso non lavare piatti. Addosso ho stracci marci imbrattati di pozzanghera e brodo di pollo. Nelle mani bianche e rugose stringo un tozzo di pane intriso di pioggia, che mordo con una fame che non si racconta. Fa freddo. Ho gli occhi grigi, pieni di solitudine, e nel cuore il frastuono di un dolore con cui sto ancora facendo i conti. Mi ci tuffo dentro.


Riemergo dall’altra parte del mondo, in una notte estiva, in mezzo a un deserto d’Australia, avvolto da suoni psichedelici che mi bombardano i timpani. L’aria sa di canna. I corpi si incastrano nudi al suolo, impastati di alcool, sudore e sabbia. Li guardo e sento scorrere un’energia nuova, di chi vuol vivere poco ma intenso. Poco più in là un ragazzo ingoia fuoco e lo risputa in fiammate che illuminano le sagome di chi balla. Mi unisco a tutta quella danza tribale e sento sgretolarsi i pezzi di chi pensavo di essere. Poi qualcuno mi avvicina alle labbra un cerino fumante che aspiro fino a entrare in un’altra dimensione: la vita è molto di più di quello che sono abituato a credere.

Sotto un sole bollente c’è il corpo spigoloso di mio nonno che rientra da una mattinata di fatica. Ha il naso bruciato e i polpacci divisi in due dal segno dell’abbronzatura degli stivali, ché giù agli orti le vipere faranno sempre più paura del caldo. Si muove con una lentezza totale, che trova il tempo per tutto. Si sciacqua il viso e si siede a tavola. Mia nonna gli cerca il collo con una mano e testa il vigore di quei muscoli terrosi. Ha gli occhi chiari e profondi, che paiono aver scalato tutta la montagna del dolore, sentiero per sentiero, metro per metro. Il succo della vita cala rosso da un pomodoro che sembra pulsare sangue, giù a fecondare una fresa secca e a sussurrare che sì, il lavoro che nobilita l’uomo esiste davvero. «Ce la faremo Marì, ce la faremo» è tutto ciò che riesco a sentire.


Un amico fragile, che non sento più da due anni, torna a chiedermi un sostegno. Gli è cresciuta la barba e sulle mani ha dei calli che ai tempi della scuola non aveva. Sposta casse in un magazzino fuori città dalle otto del mattino alle sei di sera. Si sta sudando la vita, mi dice, e un giorno o l’altro vorrebbe sposare la sua Sara. È stato in giro per il mondo quattro anni, poi è tornato, e in una casa di cura l’ha conosciuta. Lui era un paziente rosicchiato dalla depressione, lei, bella come chi sa capirti, una delle assistenti sociali. Si sono messi assieme. Ci ha convissuto cinque anni, tenendosi fedele al suo codice di uomo per bene, ché il seme del tradimento si deposita solo nei cuori inquieti; «Non le ho mai fatto mancare nulla» dice «ma c’è un’oscurità da cui non sono mai riuscito a scappare». Ci ha provato tanto, così tanto da arrivare a inginocchiarsi e pregare perché qualche dio lo aiutasse a scacciare quei fantasmi, ma non riusciva proprio più a liberarsi della sensazione di non essere nel posto giusto. Certe notti un brivido freddo lo svegliava da sogni terribili e si trovava a chiamare Sara urlando, con una paura che gli spalancava gli occhi. Ogni volta che accadeva, lì accanto lei dormiva un sonno pacifico, ad anni luce di distanza, così lontana da farlo vergognare. Una notte la bestia d’ansia proprio non ha voluto saperne di farsi domare, dice, e lui ha deciso di berci sopra. Si è vestito ed è uscito di casa col cuore in affanno. Ha tradito Sara con un’amica che non vedeva dai tempi del liceo, poi è tornato a casa. Quell’angelo dormiva ancora in una pace fatta solo di respiri. Lui le si è seduto accanto, le ha spostato i capelli dal viso e con le lacrime ha iniziato a bagnarle il cuscino, fino a svegliarla. «Mi ha perdonato» dice «ma io non so più chi sono».


Riapro gli occhi per vedere se sono ancora dove penso di essere: quella palla di fuoco c’è sempre, ma io no, io sono altrove. Sono appena diventato ventenne e con uno zaino in spalla cammino verso l’università. Al semaforo, ogni mattina, incontro un uomo seduto su un lenzuolo di cartone bucato, con un bicchiere di plastica in mano. Ha il volto pallido e un abito scolorito. Il suo sguardo è tragico, deve averne viste tante, e infatti a ogni alba racconta storie ai passanti che si fermano ad ascoltarlo. Un giorno mi viene voglia di conoscerlo: si chiama Diego. Per la gente è un barbone, anche se lui ha un problema alla pelle e la barba non gli cresce più. Dice che una casa e un lavoro li aveva già avuti in un’altra vita, ma che non ci aveva mai trovato dentro la felicità. Così si è sbarazzato di tutto e ora vive alla giornata. Della vita di prima gli manca solo la doccia calda, dice, ché un uomo che non gode sotto una doccia calda deve ancora nascere, ma per il resto preferisce la miseria. Dice che ora, quando appoggia la mano sulla superficie della vita, sente delle rughe che prima non sentiva, e questo lo fa stare bene come non era mai stato. «È tutta questione di sensibilità» mi ha detto un giorno «E di sentire. Sentire la vita fino alle ossa. E allora poi si può anche morire, ché tanto della morte non si ha più paura. Penso che la misura di quanto si sia vissuto non la dia l’età, ma la quantità di paura che si prova nei confronti della morte. Meno è, più puoi ritenere di aver vissuto. Più ti incuriosisce l’andare incontro alla morte, più sei vivo amico mio. Solo che la gente non lo sa, e crede che starsene al riparo dalla miseria possa salvarla. Ti dico che non è come si pensa, amico. La sporcizia, la povertà, il marcio. Sono parte di tutti noi, forse quella che ha più a che fare con la vita. Ogni attimo di felicità che ricordo di aver vissuto, l’ho vissuto con l’idea che un giorno o l’altro sarei diventato polvere. E allora frugo nei cestini in cerca di un pezzo di pane, certo, perché questo è il mio istinto, ma se non lo trovo non m’importa: la mia morte abbraccerà la mia vita come la più naturale delle cose. In questi anni ho imparato a farmi consolare dall’eterno rinnovarsi dell’alba e dal soffiare del vento. E ho capito una cosa: tutto ciò che possiamo fare è lasciarci vivere, assecondare questo istinto e smettere di resistere al dolore, perché dolore è ciò di cui siamo fatti. Lasciamoci vivere, inzuppiamoci nella pioggia, lasciamo che il bruciore del sole e il freddo della solitudine giochino con la nostra pelle finché ce n’è. Un giorno tutta questa grandezza terrà segreta la mia morte e la spargerà come polvere per queste strade e per queste piazze, rendendola di tutti, perché questo è il mio destino».

Pochi mesi dopo, Diego diventerà polvere, sbriciolato da un inverno che gli fermerà il cuore. Io, invece, lascerò gli studi e partirò per Parigi, per provare anch’io a sentirmi vivo. Sono passati più di dieci anni da quando mi disse quelle parole, ma in momenti come questo, le sento ancora.


Mentre il sole scende lento e spennella il mare con colori sempre più caldi, ora sento il sapore del ritorno a casa, dopo quattro anni a girare il mondo da solo. Non so più chi sono, né chi sono quelli che ho intorno. Chi mi incontra mi pone domande su com’è stato, cosa ho fatto. Io non so rispondere. So dire che lavori ho fatto, dove sono stato, quale cibo ho mangiato, ma non so dire chi ha fatto tutto ciò. L’entusiasmo del ritorno nel giro di qualche settimana si trasforma in inquietudine. Sono fragile. Nessuno di chi ho intorno mi pare parlare la mia lingua. La vita che mi era sembrata immensa in quella notte australiana ora puzza di stantìo ed è così piccola da farmi mancare il respiro. Gli amici che ogni tanto rivedo si sono trasformati nei loro genitori, e un senso di vuoto comincia a divorarmi lo stomaco e a colorarmi di nero i risvegli. Il mio corpo forte, forgiato e scolpito da anni di viaggi smette presto di procedere insieme alla mente, che si dilegua per una strada tutta sua e inizia a produrre merda. Non vedo più un futuro e tutto ciò che mi rimane possibile fare è scrivere del mio malessere. La notte in cui prendo in mano la penna per la prima volta sento un brivido, come se qualcuno mi stesse restituendo l’opportunità di soddisfare la sete di comunicazione che ci riguarda tutti, e che in me non si saziava ormai da un pezzo. Scrivo di getto, ogni notte di più, anche se sento che ormai non comunico più con gli uomini, ma con un’idea di umanità che mi vive nel cuore e che solo raramente ritrovo nel mondo. Dalla depressione ne uscirò dopo anni di cortocircuiti interiori, ma ne uscirò, e tornerò ad amare e a fidarmi di quegli amici che mi sembrava non parlassero più la mia lingua, così come delle promesse di un sole che tramonta, proprio come ora. Per la verità ad aiutarmi a venire fuori da quel buco ci sarà l’amore della ragazza più dolce e paziente che io abbia mai conosciuto: si chiama Sara, e da lei imparerò l’arte del perdono, ma forse ne ho già parlato.


Riapro gli occhi. La palla di fuoco non c’è più, si è tuffata nell’orizzonte prima di quanto mi aspettassi. O forse sono io che ho perso per una mezzoretta la concezione del tempo. Comunque volevo dirvi, ora che ho ripreso i sensi, che in realtà su questa panchina non sono solo. Sotto il mio braccio c’è anche Sara, che come me non dice una parola. Oramai ci parliamo col silenzio, e stiamo un gran bene. Chissà lei quali fogli avrà visto svolazzare in giro per questo tramonto. Di sicuro nel riflesso dei suoi occhi ne rivedo un po’ dei miei, e quando saremo a casa le scriverò una poesia, dato che oltre a spostare casse in un magazzino fuori città dalle otto del mattino alle sei di sera, penso sia l’unica altra cosa che mi riesce bene.

E poi è bello pensare che dove finiscono le mie dita callose, debba in qualche modo cominciare una penna.

 
 
 

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